“Il Molino Parisio di Bologna” – articolo dell’architetto Erica Landucci pubblicato sulla rivista “Scuola Officina”

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista del Museo del Patrimonio Industriale di Bologna (rivista n.2 del 2018), dove è possibile acquistare la versione integrale corredata di foto:
http://www.museibologna.it/patrimonioindustriale.
In fondo riportiamo tutte le informazioni utili per abbonarsi.

L’articolo è la sintesi di una ricerca storico-archivistica che ha portato l’autrice alla pubblicazione del volume Il mulino dimenticato. Storia
del Molino Parisio, presso Paolo Persiani editore di Bologna, nel 2017.
Ringraziamo il Museo del Patrimonio Industriale, che ci ha dato la possibilità di pubblicare questo bellissimo articolo sul nostro sito.

PERCHÉ IL MOLINO PARISIO?
La presenza fisica e, soprattutto, la storia di questo mulino lo portano ad essere uno dei simboli del patrimonio industriale di Bologna, l’ultimo a cessare l’attività sul Canale di Savena, in una zona molto vivace della città,
fuori le mura, fra i Quartieri Santo Stefano e Savena all’incrocio
fra le Vie Toscana, Murri e Parisio.
Dopo la scossa di terremoto del 29 maggio 2012 era stata segnalata la necessità di verificare la stabilità della ciminiera del mulino. Il Comando dei Vigili del Fuoco e l’Ufficio Tutela Incolumità del Comune di Bologna effettuavano quindi i sopralluoghi necessari rilevando un dissesto
strutturale. Per motivi di sicurezza dell’area e della cittadinanza,
un’ordinanza urgente del Comune aveva quindi portato al taglio di due terzi della ciminiera lasciando solo un grosso moncone alla base, nonostante le prese di posizione pubbliche a favore della salvaguardia e del recupero di un manufatto che, per la sua ubicazione, era stato ed
era ancora un importante ed identitario punto di riferimento
visivo territoriale.


MOLINO BELDEPORTO O DE’ LAMBERTINI
Il Molino Parisio utilizzava per la propria attività molitoria l’acqua del Canale di Savena. Su questo antico corso d’acqua artificiale, la cui prima escavazione si fa risalire al XII secolo, erano presenti vari opifici, tra i quali anche alcuni mulini, così denominati: de’ Foscherari, Parisio, Belpoggio,
di Frino, di Porta Castiglione o della Misericordia.
La documentazione archivistica ci informa di un’attività ricollegabile, almeno fin dal 1417, alla illustre famiglia Lambertini, che darà i natali a Prospero Lorenzo Lambertini (1675-1758), arcivescovo di Bologna dal 1731 e papa della Chiesa cattolica dal 1740.
In numerosi rogiti di compra-vendita ed affitto di terreni, immobili e mulini in molte zone della città e della provincia, oltre che in territorio ferrarese, erano presenti i nomi di componenti di questa famiglia. Fra il 1317 e il 1335 rogitavano nelle aree “Camalduli” e “Malvolta”, vicine al
complesso di edifici che in seguito prenderà il nome di “Molino Parisio”. Nel 1444 acquistavano terreni con alberi e viti “in loco detto Bello de porto in S. Julianj”, vale a dire nella Parrocchia di San Giuliano, la cui Chiesa è attualmente in Via Santo Stefano 121, ‘dentro mura’. L’area parrocchiale
si estendeva fino all’attuale zona di Chiesanuova e comprendeva il luogo denominato “Beldeporto”. Successivamente, la sezione di San Silverio, detta “la Chiesa Nuova” diverrà sussidiale di San Giuliano.
Nei Dazi delle moliture (1410-1448), i registri dove venivano annotate le persone che si recavano a macinare il grano, con le relative quantità, presso i mulini di Bologna e fuori città, viene citato un “Molino detto de Beldeporto”.
A questo punto si pone la necessità di capire dove esattamente fosse ubicato e se avesse a che fare con quello che sarà poi il Molino Parisio.
La prima notizia documentata, secondo la quale il “Molino De Beldeporto” era di proprietà della famiglia Lambertini, risale al 12 giugno 1417, nella transazione da Egano e fratelli Lambertini a Bartolomeo e Carlo Lambertini (due rami della medesima famiglia) di alcuni beni, fra i quali il
“Belporti ad Molendino”.
Un rogito del 27 maggio 1485 ci informa della grande consistenza del possedimento nel luogo denominato Beldeporto, tanto che alcuni beni venivano suddivisi tra due fratelli membri della famiglia. A Bernardino spettava il terreno “arato e arborato”, in “Sancti Stefani per quam itur
Florentium”, sull’attuale Via Toscana, col “Molino da Belporto … da frumento, con due macine di pietra, un forno, il tetto in coppi e balcone, che prende acqua da un canale”.
A Giovanni Battista veniva lasciata una “possessione contigua”, cioè l’altra parte dei terreni. Il documento scioglie quindi qualsiasi dubbio residuo sulla localizzazione.
Attorno al 1498 il Molino “da Belporto” iniziava ad essere chiamato Molino “dè Lambertini”. Il documento che lo attesta, l’inventario dei beni di Giovanna Felicini, moglie di Giovanni Battista Lambertini, dà ulteriore conferma che quel mulino, in quella posizione, è proprio quello oggetto
della nostra indagine. La denominazione “Beldeporto” (bel sito, bella località) era prima riferita al luogo, poi passata all’edificio soltanto.


DA MOLINO BELDEPORTO A PARISIO
Il 12 settembre 1608 i Lambertini vendevano agli Zani, nobile famiglia bolognese con la quale avevano legami di parentela, vari beni in blocco fra i quali “un Molendinum (…) in dicto loco Beldiporto” da frumento e biada, a tre ruote, servito dall’acqua, con una casa per il mugnaio ed una per l’ortolano con stalla, portico, pozzo, forno ed altre pertinenze.
Dopo pochi mesi dall’acquisto, il 22 dicembre 1608, il giovane Giovanni Zani dava in affitto il Molino Beldiporto ai figli di Paride Marchi-Parisi, una vera e propria “casata” di mugnai. Grosso modo dalla data di inizio della gestione Marchi-Parisi del mulino i documenti riportano quasi esclusivamente il nome “Mulino dè o di Parisi”.
La denominazione Molino Beldiporto era stata dimenticata lungo il cammino della storia, poi la medesima venne mutata in Parisio. La ricerca, condotta presso le fonti primarie, ha gettato luce sulla storia del Molino Parisio, svelando tanti dubbi: si diceva che fosse un mulino del Seicento, invece esisteva già almeno fin dal 1417; inoltre è stato possibile chiarire il nome Parisio in relazione ad affittuari e non a proprietari.
Va ricordato che in epoca Medioevale e Moderna l’intensa attività dei mulini era fonte di grande remunerazione per i proprietari, appartenenti a dinastie feudali e nobiliari che ne avevano favorito la diffusione, avendo la disponibilità dei capitali necessari per lo scavo e la costruzione di bacino e impianto molitorio, al quale erano affiancati spesso frantoio e forno. La gestione dei mulini ‘signorili’ era affidata ad un “fideles”, in cambio di un affitto annuale.
All’affittuario spettava sempre gran parte del lavoro di manutenzione delle strutture murarie e dei macchinari, tanto da fare di lui un “tecnico” specializzato. Si trattava di un lavoro duro ma che, tramandato di generazione in generazione, permetteva alle famiglie dei mugnai un sicuro
arricchimento, riuscendo poi, in molti casi, a diventare proprietari del mulino.
All’inizio della seconda metà del Settecento il nostro mulino tornava ai Lambertini, precisamente al principe Egano.
Una curiosità: Egano Lambertini compare tra i personaggi del film del 1954 Il Cardinal Lambertini, regia di Giorgio Pàstina, severamente sgridato dallo zio, futuro papa Benedetto IV (un formidabile Gino Cervi), perché trascurava la moglie.
Molteplici erano i beni inventariati nell’“eredità Zani”, il testamento nel quale monsignor conte Paolo Zani, prelato di Benedetto XIV e ultimo membro della casata che con lui si estingueva, li lasciava ai Lambertini, prima di morire nel 1756.
Anche l’antica stirpe dei Lambertini di lì a poco terminerà con la morte degli ultimi suoi componenti, i fratelli Giovanni (1806) e Cesare (1821), che avevano utilizzato il patrimonio familiare sostanzialmente per ripagare debiti.

I CONTRATTI DI AFFITTO
Non si sono trovati disegni raffiguranti il mulino e i suoi macchinari, ma sono disponibili le informazioni contenute nei rogiti di affitto.
Il contratto Lambertini-Ottani del 13 febbraio 1784 lo descrive come “un edifizio ad uso di Molino per macinare formento, e biada con li suoi acquedotti, fornito di tutti gli strumenti ed ordegni necessari pel commodo, quale piglia l’acqua dal vicino Canale (…) il qual’ Molino è di quattro porte che macinano (…) Item una casa murata, cuppata (…) balchionata (…) con corte, pozzo, forno, colombara, stalla, greppia e altre sue soprastanze e pertinenze. Item una piccola pezza di terra prativa di misura un quarto di
tornatura annessa a detti edifizi (…) Quali edifizi sono posti nel detto Comune di San Silverio nel Molino di Parisij o sia Bel’Porto”.
In tutti i contratti sono ovviamente definite le clausole per il conduttore ed il locatore. In alcuni casi con risvolti singolari, ai nostri occhi, ma significativi dei rapporti di potere del tempo. Ad esempio, sempre nel contratto del 1784, si precisa: “Occorrendo risarcire i tetti e coppi degl’edifizj, oppur’fare qualsjansj altre riparazioni al detto Molino
e suoi annessi, sarà ancora obbligato il Sig. Conduttore somministrare del proprio e quante volte occorrerà il vino ai Maestri, Operarj, Garzoni e Manuali per tutto il tempo di tali lavori e senza poter ricevere dal Sig. Locatore neppur l’importo di detto vino”.
Talvolta agli atti sono allegate stime di periti, come quelle di Pellegrino Veronesi del 1785 e del perito “Cittadino Giuseppe Nannini” del 5 giugno 1799 (17 Pratile, Anno VII). Quest’ultima stabiliva il prezzo di quattrini 12.000 per la futura vendita da Lambertini a Loreti di “un edifizio ad uso di Molino da formento con orto annesso, intermediato dal Canale (…) con stalla da cavalli ed abitato e stalla per l’ortolano e col diritto dell’acqua proveniente dal Canale di San Roffillo, in sito denominato Belporto o sia Parisi (…) il tutto presentemente affittato per lire 1.500 annue pagabili
ogni mese al Sig. Luca Marchetti”. Il Nannini ci dice pure che l’edificio ha un “portico avanti esistente a fronte della strada maestra di strada Stefano, sostenuto da pilastri di mattoni ed a coppi sopra, con bottega annessa e con sua mostra a fronte di detta strada maestra, munito della sua serraglia ed abitazione unita al detto Molino per comodo del Monaro; cantina sotterranea”.
Anche oggi l’ex mulino ha un portico sulla via Toscana.


LA CARTOGRAFIA STORICA
La prima esaustiva mappa dell’area risale al 1688, raffigurante il Molino del conte Valerio Zani ed i terreni attigui. Splendide sono poi le mappe che i periti Giulio Cassani nel 1736 e Bartolomeo Bonacursi nel 1759, incaricati
di fornire soluzioni utili a risolvere i secolari “disordini” che affliggevano il Canale di Savena, avevano allegato alle loro relazioni, ricche di dati, dettagli e note, coi profili di livellazione del Canale.
L’Archivio Storico del Comune di Bologna conserva una planimetria del 1828 con una deliziosa raffigurazione del “Molino Parisi”, ed indicazioni anche della proprietà Vicini, all’interno della interessante pratica di “Locazione enfiteutica fatta dall’Ill.ma Magistratura comunitaria di Bologna al Sig. Pompeo Monti di uno stradello nell’Appodiato di San
Ruffillo per l’annuo canone di Baj 80”. La mappa reca la firma dal senatore Carlo Pepoli.
La denominazione di Via Fonda è rimasta, in modo ufficiale, fino al 1933 quando viene mutata in Via Parisioche comunque, già dalla fine del Seicento, veniva correntemente usata.
La mappa del Catasto Boncompagni (1780-1835) è di difficile lettura. Nel 1781 il complesso di proprietà Lambertini, nel Comune di “San Giuliano detto Chiesa Nuova”, a “San Raffaelle”, si divideva in un “luogo detto Belporto con Mulino detto di Parisi, affittato al Sig. Gaetano Brunetti,
attualmente; scoperto con soli frutteti, investito ad orto irrigatorio”, con due terreni “atti a frumento e canapa, arbora, viti e gelsi, coll’irrigazione di primo grado – Mediocre” ed un terreno “lavorato a spese del Sig. Giovanni
Rosa Monaro [mugnaio] attualmente a uso d’orto. Atto a frumento e canapa, arbora, viti e gelsi, coll’irrigazione di primo grado – Infimo”.
Più chiara è la mappa del Catasto Gregoriano (1811-sec. XX). Il complesso del “Molino di/de’ Parisi”, della parrocchia di San Silverio, è suddiviso nel “mulino” e nella “casa di affitto del mugnaio”, la quale, dopo il 1781, era stata costruita su quel terreno (di grado “infimo”) per Giovanni Rosa.


TRA OTTOCENTO E NOVECENTO
Nel marzo 1842, la famiglia Rosa aveva acquistato il “Molino detto di Parisio” da grano e a 4 macine, da Carlo Berti Pichat. Tra i Rosa e Berti Pichat era avvenuta una permuta: ai primi il Molino Parisio, al noto agronomo e patriota il Molino Grande. L’edificio di quest’ultimo è tutt’ora
esistente, ai bordi dell’Oasi omonima, in località Pizzocalvo, sulla riva sinistra dell’Idice, presso l’area di Cà dei Mandorli, a San Lazzaro di Savena.
I Rosa, anch’essi da ascrivere a quelle “casate” di mugnai divenuti imprenditori tra i secoli XIX e XX, avevano mantenuto la proprietà dell’area fino al 1926, gestendo anche, come proprietari o in affittanza, altri mulini in diverse parti della città.
Il 20 febbraio 1883 Ottavio Rosa faceva richiesta al Sindaco di Bologna di installare, nel proprio mulino, un motore a vapore della forza di 20 cavalli, “onde esercitare l’industria anche in tempo di siccità”. Fino a quel momento nei periodi di mancanza d’acqua il mulino veniva azionato dalla forza umana o da buoi. L’autorizzazione dell’Ufficio Municipale di Igiene e Polizia è concessa a luglio del medesimo anno “a condizione che l’uscita del vapore sia portata al disopra dei tetti del fabbricato”, clausola poi appurata: “Lo sfiatatoio pel fumo della macchina di cui è stato costruito in coronamento per un’altezza (al di sopra del fabbricato) superiore di quanto il medesimo misura dal suolo”.
Si potrebbe così concludere che la ciminiera sia stata costruita fra aprile e luglio del 1883.
Fonte di dubbio è però una fotografia, datata 1905, che la mostra attorniata da impalcature ed operai. Potrebbe trattarsi di ponteggi per un intervento di manutenzione. Ciò non è chiaro.
L’utilizzo di una motrice a vapore è ovviamente legata all’introduzione di nuove moderne macchine per la lavorazione: il mulino a palmenti si era quindi venuto trasformando, in tempi e modi che al momento non si conoscono, in un impianto moderno che utilizzava la macinazione a
cilindri.
La famiglia Carpi-Cosentino entra nella nostra storia nel 1931, quando riunisce nelle proprie mani gran parte del complesso detto del Molino Parisio.
Giulietta Carpi in Cosentino ha avuto un ruolo fondamentale nel definire l’aspetto esterno, pressoché simile a quello attuale, del fabbricato. Il 7 aprile 1936 inoltrava una richiesta per la sopraelevazione di un piano ed il restauro dello stabile su Via Parisio, presentando un progetto firmato
dal suo geometra. La committente si dimostrava anche attenta al riutilizzo dei materiali: nella richiesta faceva presente che, nell’esecuzione dei lavori, sarebbero stati impiegati materiali di recupero e rotaie usate per le poche
travi occorrenti.
La vicenda, nella voluminosa pratica dell’Archivio Storico del Comune, oltre a essere lunga e complessa, metteva in luce particolari circa i non semplici rapporti fra la Carpi, tecnico e ufficio preposto. In sintesi, dopo due progetti presentati e poi “diniegati” (una delle motivazioni toccava
il “problema” delle attribuzioni del geometra), la signora Giulietta, che avrebbe potuto perdersi d’animo, finalmente aveva visto arrivare la sospirata licenza concessa al terzo progetto.
Una successiva richiesta della Carpi, relativa a una latrina all’interno del mulino, vicenda che si dipana fra il 1958 e il 1966, sfiorando anche le mani dell’architetto Campos Venuti, in qualità di Assessore all’Urbanistica, assume un certo interesse in quanto nella pratica si affermava che nel Piano Regolatore Generale allora vigente, nella relazione istitutiva del 1955 a corredo del P.R.G. del 1958, era contenuta una “intenzione” di emolizione del Molino Parisio, poi di fatto non recepita.
Fin dal 1942 era stata sentita la necessità di riorganizzazione dell’area della vicina Caserma Mazzoni con allargamento dell’imbocco di Via Parisio e conseguente interessamento dell’edificio con il mulino. D’altronde l’allargamento della via Toscana era già previsto dal Piano Regolatore del 1889. Ma il Molino Parisio è rimasto in piedi.


EPILOGO
Alla cessazione dell’attività produttiva, ultimo mulino sul Canale di Savena, il suo futuro era rimasto un po’ incerto, poi un privato lo aveva acquistato per una possibile ristrutturazione.
Nel 1988 la proprietà aveva fatto richiesta di concessione per un progetto, a firma dell’architetto Luciano Ghedini, di restauro e risanamento conservativo dell’ex Mulino.
Il progetto prevedeva tre diversi usi: ristorante al piano terra, uffici al piano primo, residenza al piano secondo.
I lavori erano iniziati il 12 giugno 1989. Successivamente, in data 29 gennaio 1991, era stata rilasciata concessione per variante in corso d’opera relativa al piano terra e all’interrato con cambio d’uso da ristorante ad agenzia bancaria.
La copertura del canale, previa autorizzazione del Consorzio della Chiusa di San Ruffillo e del Canale di Savena, aveva permesso di realizzare una zona a parcheggio.
Oggi l’importante rilevanza storica del mulino e dell’area circostante è solo un pallido ricordo. Fortunatamente, non manca l’impegno di persone ed associazioni (MUSA, La rosa dei venti) che operano in zona preservandone la memoria con iniziative culturali ed attività di salvaguardia
e recupero civico del territorio, ancora attraversato dal Canale di Savena.

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